di Dino Ales - ottobre 1992
Potrebbe essere di facile lettura l’impegno figurativo di Baldo
Savonari la cui denominazione — TERZOFUTURISMO — che ha la chiarezza di
un proclama e l’ambizione, nemmeno tanto segreta, di una rifondazione,
riassume e rilancia l’impegno fervoroso con cui l’intera cultura
nazionale, ancor prima ed intorno alla manifestazione di Palazzo Grassi,
si è accinta ad una rilettura se non, addirittura, ad una rivalutazione
del Movimento Futurista, sopratutto per quegli aspetti che hanno
interessato le arti visive. Ma nella pittura di Savonari, ritengo,
quella futurista è soltanto una componente, anche se la più importante
e, lungi dall’essere, come è accaduto per tanta pittura contemporanea,
una citazione, in qualche modo è invece un tentativo, peraltro ben
riuscito, di percorrere nuove strade, ma con alle spalle una storia
antica ed un grosso bagaglio culturale: la storia e la cultura europea
di questo secolo, certo, con le inquietudini, le scoperte, i tormenti,
le angosce, i drammi, le conquiste che gli appartengono, ma legate a
quel filo, come egli stesso dice, che inizia a scorrere dalla fine del
Medioevo e dal Rinascimento, attraverso sei secoli, fino a giungere a
questo nostro tempo.
Il Futurismo nacque come antitesi violenta sia verso l’arte ufficiale
del tempo che verso il verismo umanitario, dando fiato ad una diffusa,
prorompente aspirazione verso la modernità. Alla sua base vi era un
gorgo di idee e sentimenti disparati in cui, almeno per alcuni dei suoi
promotori, la volontà di rinnovamento non era né puramente plastica né
puramente rivoluzionaria.
Oltre a quei caratteri che contribuirono a decretarne una frettolosa
archiviazione e, cioè, un certo infantilismo ed un istrionismo
deteriore, c’era sicuramente dell’altro: l’inquietudine,
l’insoddisfazione di fronte alla pigrizia e all’inerzia della cultura
ufficiale, l’ansia di una verità diversa da quella dei borghesi e dei
filistei.
Da questo confuso groviglio di energie in quegli anni emerse una visione
artistica aperta alla nuova problematica che in Europa si stava
svolgendo. Fu il primo movimento di avanguardia in Italia e, come tale,
un movimento che preparò e annunciò un radicale rivolgimento della
cultura e del costume, negando in blocco tutto il passato: certo, il suo
intento rivoluzionario si ridusse, in gran parte, ad estremismo polemico
e coincise con quel furore nazionalistico che permeava gli spiriti di
molti contemporanei.
Savonari, che invece è uomo ed artista di equilibrio e di ragione, al
Futurismo attinge il gusto della sperimentazione e l’uso della
intuizione geniale: lo interessa lo studio delle vibrazioni luminose, la
rappresentazione sintetica del moto e, cioè, la vita stessa della
materia, la evocazione della intensità vitale dei fenomeni.
Lo affascina l’esperienza di Balla, quello delle "compenetrazioni
iridescenti", tutte giocate sulla giustapposizione seriale di forme
geometriche e di colori puri; opere che possiamo definire tra i primi
straordinari esempi di una pittura non figurativa in Europa.
Lo stimola, credo, e lo coinvolge, sopratutto del Primo Futurismo, quel
rinnovamento della sensibilità di fronte alla realtà contemporanea della
quale volle capire i cambiamenti per atteggiarsi in sintonia con la
invenzione o la scoperta di una nuova tematica, che comunque arricchì il
repertorio delle immagini poetiche del mondo figurativo.
In questo senso credo che del Futurismo Savonari condivida l’assetto che
ad esso diede Boccioni, il quale nel suo sforzo creativo e teorico tese
a definirlo come sintesi dei valori formali divisionisti e cubisti, ma
anche dei valori espressionistici.
Anche lui, come Boccioni e Picasso, non sfugge alla condizione creativa
che fa dell’opera il risultato espressivo della emozione: è quell’aspetto
irrazionale che nella sua pittura, pur così lucidamente razionale, si
rivela come una sorta di ebbrezza drammatica, che denuncia la volontà
dell’artista di far scaturire dall’interno delle cose le energie
infinite della natura. Al Cubismo poi, l’altra robusta radice della sua
pittura, Savonari attinge in un tentativo verso l’infinito, verso
l’eterno, volendo fissare sulla tela tutte le facce, tutti i momenti
dell’oggetto, la sua varietà ininterrotta di apparenze e di segni.
Mi sovviene ciò che scrive Elouard a proposito di Picasso:
" ...a
dispetto delle nozioni intorno al reale oggettivo, Picasso ha
ristabilito il contatto tra l’oggetto e colui che lo vede e che, di
conseguenza, lo pensa: egli ci ha ridato, nella maniera più audace, più
sublime, le prove insuperabili dell’esistenza dell’uomo e del mondo".
Carlo Carrà, che nel Futurismo trascorse una stagione estremamente
creativa, nel ‘16 lasciava il Movimento per la pittura metafisica: non
scrisse più di futuro e di velocità, non invocava più la distruzione di
Venezia e dei musei, anzi ricercava insieme ad altri il carattere antico
della nostra cultura: intorno alla rivista romana di Broglio, "Valori
plastici", si tentava di ritrovare i valori figurativi nazionali
italiani attraverso Io studio dei Maestri: Giotto, Masaccio, Piero della
Francesca, Paolo Uccello.
Sì, quel Paolo Uccello che Savonari con una punta di audacia definisce
il padre antico del Futurismo, formulando in proposito la seducente
ipotesi di quel filo di cui parlavamo prima, che lega, tra l’altro, la
scoperta della prospettiva di Paolo alla bella follia del Movimento: un
filo, come dice il Nostro, che rende veramente diversa la pittura
italiana da qualsiasi altra pittura.
"Paolo Uccello ebbe il senso dei valori tattili e gusto del colore —
scrive Berenson — ma la sua vera passione era la prospettiva: per lui la
pittura non fu che occasione per risolvere i problemi di tale scienza...
Cavalli riversi, guerrieri morti o morenti, lance rotte, campi arati ed
arche di Noè gli servono, appena con un’ombra di dissimulazione, per i
suoi impianti di linee matematicamente conseguenti. Nel suo zelo egli
dimenticò il colore reale, gli piaceva dipingere i cavalli in verde e in
rosa!...". Fin qui Berenson.
Prendete l’opera che Savonari dedica ad Uccello, alla sua celebre
battaglia: quattro fughe prospettiche, quasi delle traiettorie, lungo le
quali idealmente si pongono, staticamente eppure in perenne corsa,
cavalieri e cavalli, spade e lance e durlindane, elmi e corazze. Un
movimento, appunto, un vortice fantasmagorico ottenuto col mescolarsi di
una infinita serie di segni, di figure geometriche distinte e nel
contempo fuse, una antologia di accenti futuristi e cubisti, di cui non
sai se lodare la perizia raffinata o stupirti del turbinio galoppante
della fantasia.
Una battaglia, in fondo, dipinta come Uccello l’avrebbe dipinta se fosse
vissuto in questo nostro secolo.
Ovviamente siamo lontani un miglio da ogni intento citazionistico, sia
per quanto riguarda la pittura di Uccello che, lo abbiamo detto, per
l’uso che Savonari fa, rigoroso e spregiudicato ad un tempo, del
linguaggio futurista e di quello cubista.
Ci troviamo, invece, a mio avviso, nel caso di un artista che possiede
un suo linguaggio, nel senso già intuito da Vico, secondo cui il
linguaggio stesso nasce come reazione emotiva dell’uomo all’incontro con
le cose e, quindi, è esso stesso poesia.
Mi sovviene, a tal proposito, quanto Savonari stesso mi raccontava
davanti ad un quadro presente in questa sua collezione del Saracen,
"Sinfonia Siciliana": un quadro nel quale arance, colori, una stessa
temperatura che vi si scorge, sono tutti elementi raccordati, appunto,
sinfonicamente a narrare d’una Sicilia non certamente oleografica, ma
densamente sognata, misteriosamente sottesa oltre i clamori della
invenzione pittorica.
Era il suo pennello a tracciare quei segni e quei colori proprio a
Capaci, nel momento stesso della orrenda deflagrazione che sbriciolava
in aria le macchine che conducevano da Punta Raisi a Palermo Falcone e
la sua scorta.
Savonari mi ha raccontato d’aver continuato a dipingere con l’eco della
esplosione nelle orecchie quella Sicilia incantata e rappresa nel suo
sogno di pittore, non certamente per placare la sua disperazione, ma per
ricondurla ad una qualche razionalità. Una pacata razionalità nella
quale l’artista, continuando ad essere tale, nel rifiuto di ogni urlato,
sterile impegno antimafia, fosse testimone autentico del suo tempo,
della sua terra e della sua tragedia, ma — perché no? — della sua
poesia, del suo sogno che, oltre ogni strage, continua a sopravvivere.
In fondo non è un caso se proprio quel sogno induce un illuminato
imprenditore a trasformare, nel suo ventennale, un albergo, dimora per
vacanze, in qualcosa di più e, cioè, la sede di una collezione d’arte
del nostro tempo: uno dei luoghi in cui il sogno si materializza,
compiendo quel miracolo che fa di una terra come la nostra una terra
comunque nobilissima e gli uomini che vi abitano o soltanto vi
transitano senza dubbio migliori.
Anche se si sottrae a ogni tentativo di classificazione, il campo
dell’immaginario non è quello dell’anarchia e del disordine: ciò è tanto
più vero nell’immaginario che costituisce la fonte, il sostrato di
questa pittura. Le creazioni più spontanee obbediscono a leggi interne:
anche i simboli che Savonari usa (alveari, conchiglie, strumenti
musicali, piramidi…) si iscrivono in una logica e, più che essere
creazioni dell’inconscio, sono forme nuove, che vanno ad ascriversi ad
un immaginario contemporaneo, talvolta dal significato inquietante, come
inquieto è l’intelletto di questo autore e come inquieto è il tempo che
egli intensamente vive.
E' sempre la ragione che organizza il caos apparente di queste
composizioni, le quali poi non sono che un pretesto per parlare di
colore, con il quale egli riesce a esprimere pulsioni vitali, esperienze
totali del suo io che nascono grazie al gioco inesauribile e complesso
dei legami che tessono il suo divenire e quello del mondo cui appartiene
e dal quale assume la materia del suo racconto pittorico.
Ma davanti a queste opere non possiamo che ripetere quanto altre volte è
stato detto o intuito: l’arte è un modo di esistere. Non ha senso
chiedersi a che cosa serve, poiché non troveremo mai una risposta
convincente, come non ne troviamo, almeno più convincenti, per lo stesso
nostro esistere, o per l’amore, o per gli ideali.
Diciamo, semplicemente, che l’arte c’è, e ad ognuno di noi essa riesce a
dare il suo messaggio, più o meno intenso, nella misura in cui ci
apprestiamo a ricercarne il senso nascosto.
In occasione dell'inaugurazione della mostra permanente al "Saracen
hotel" di Isola delle Femmine, Palermo.